Concetti contrastivi – di Marco Guastavigna

(Pubblicato in “La professionalità docente. Materiali per una critica sindacale” – a cura di Igor Piotto, Ediesse, 2018, pp. 123-128)

Sono contento di aver colto negli interventi di Igor Piotto e di Pino Patroncini un accenno critico al “digitale”.

Mi occupo di questo tema da qualche decennio e ho accumulato in merito numerose esperienze di formazione, comprese quelle di docenza nei PAS e nei TFA, ovvero in quei percorsi istituzionali in cui si è definito in qualche modo un modello di “professionalità digitale” e su questa base si sono esaminati, valutati e abilitati futuri insegnanti, tra cui anche coloro che sono destinati a lavorare sul sostegno.

Ho raggiunto una doppia convinzione:

-          L’introduzione del “digitale” nella scuola italiana è stata in larga misura una diffusione latente e incontrastata di una visione e di una mentalità neoliberiste;

-          C’è un gran bisogno di pensiero divergente, di analisi che assumano punti di vista diversi rispetto a una sorta di pensiero pedagogico unico, dilagante e – ahimè – in larga misura dilagato.

Apprezzo quindi molto che si sia aperto uno spiraglio di discussione a auspico che sia solo un primo passo, che saremo in grado sul versante sindacale di condurre un dibattito ampio, che ci consenta di arginare il processo attualmente in atto nella scuola.

Non è del resto un caso che uno dei perni della legge 107/2015 sia il Piano Nazionale Scuola Digitale. Esso preesiste alla “Buona Scuola” (mai il marketing concettuale dei partiti e delle istituzionali aveva raggiunto simili livelli di paradosso) e ha contribuito in ampia misura a prepararne la silente accettazione che è sotto gli occhi di tutti. Non solo, inossidabili entusiasmi per le tecnologie della comunicazione persistono purtroppo anche presso coloro che hanno messo in atto operazioni di resistenza scolastica, nella direzione descritta nell’intervento di Piotto.

I primi passaggi dell’introduzione del digitale a scuola risalgono alla metà degli anni Novanta, prima con il progetto di sperimentazione Multilab e poi con il Progetto di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche del 1997-2000. Hanno innervato prima la diffusione e poi la soppressione nella scuola di base degli Operatori Tecnologici, il cui numero era in larga misura una variabile dipendente del sovrannumero di Educazione Tecnica in quella che allora era chiamata scuola media. Hanno alimentato ForTic, la campagna di formazione massiva di inizio millennio, le iniziative per la diffusione dei learning object, dei libri elettronici, delle LIM e così via, secondo il variare del totem tecnologico e del mantra metodologico del momento. Hanno vissuto momenti di indesiderata celebrità mediale quando Report si è occupata del costo e del reale valore culturale e di mercato delle “Pillole del Sapere”, che ha provocato audizioni parlamentari, inchieste amministrative e penali, provvedimenti della Corte dei Conti; sono state protagoniste della poco chiara vicenda dell’Editoria Digitale Scolastica, i cui autentici esiti sono tuttora noti a poche e selezionate persone.

Non vi sono né studi scientifici né evidenze che testimonino che tutti questi costosi interventi abbiano mai raggiunto l’obiettivo dichiarato, ovvero incrementare l’apprendimento.

Il rapporto OCSE di qualche anno fa, per altro, ha smentito con forza un pregiudizio ancora molto diffuso, ovvero l’indisponibilità degli insegnanti al cambiamento: al contrario, a cimentarsi con gli strumenti digitali sono stati proprio i colleghi più attenti e sensibili alla necessità di riflettere e di formarsi in modo permanente.

A mio giudizio, il vero risultato dell’ingresso delle tecnologie digitali a scuola, nella didattica e non soltanto, è stato ben altro dallo scopo affermato: modalità e criteri adottati, infatti, hanno contribuito a inoculare prima e rafforzare gli assunti fondamentali di una visione neoliberista dell’istruzione pubblica e del suo governo.

L’assunto più evidente è la piena legittimità culturale di competizione e concorrenza. Sono circa venti anni, infatti, che nel campo delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione si procede per bandi di concorso, senza che questa logica abbia mai trovato la minima opposizione. Il che vuol dire che ci sono istituzioni scolastiche della Repubblica che vincono e ricevono risorse e attrezzature e altre che invece non sono messe nelle stesse condizioni, con un modo di operare doppiamente lesivo dei principi di fondo dell’istruzione pubblica così come la delinea la Carta Costituzionale. Da una parte, infatti, la politica dei bandi, che è iniziata ben prima della crisi economica e dei tagli di gelminiana memoria, segna l’esplicita rinuncia da parte dello Stato a provvedere in modo equo al bisogno di tutti. Dall’altra le situazioni di sperequazione sono destinate ad aggravarsi, perché disporre di risorse economiche e professionali permette di mettere in atto progetti didattici e formativi che possono essere presentati come credenziali che avvantaggeranno nei bandi successivi. Coniugato con visione e gestione sempre più aziendalistiche dell’autonomia scolastica, questo modo di procedere è un fattore di disgregazione strisciante dell’unitarietà del sistema nazionale di istruzione, che va denunciato, fermato, invertito. Perfino il già citato rapporto OCSE invitava il nostro Paese a porsi obiettivi sostenibili economicamente, ma estendibili alla più larga quantità possibile di scuole: ad esempio, si invitavano i “decisori” a rinunciare all’idea della diffusione delle Lavagne interattive multimediali a favore dei proiettori digitali, meno costosi e performanti, ma distribuibili nelle scuole e nelle aule in misura assai più diffusa e inclusiva.

Il primo assunto riposa in modo palese sul secondo, ovvero la manipolazione concettuale. Mi riferisco in particolare all’impiego onnicomprensivo dell’aggettivo “digitale”, che è stato coniato in origine per definire ciò viene rappresentato con numeri o che manipola numeri, ed è divenuto in seguito oggetto di un progressivo potenziamento semantico di tipo evocativo, che gli ha conferito nell’immaginario scolastico un significato sciamanico e totalitario. L’accostamento dell’aggettivo a sostantivi diversi (scuola, didattica, competenza/e, apprendimento e così via) costruisce così di volta in volta binomi pseudo-scientifici, che uniscono per immanenza al concetto di uso di tecnologie quello di innovazione metodologica e quello di efficacia formativa garantita, in un processo di compiaciuta dogmatizzazione di principi e formativi e situazioni professionali.

Il binomio più avvilente e probabilmente meno giustificato sul piano antropologico è tuttora il più diffuso. Sto parlando dei nativi digitali, che ancora popolano i PTOF delle nostre scuole, provinciale plauso all’efficacia dell’indubbiamente geniale slogan di Marc Prensky, nonostante per parte sua questo giornalista e autore di videogiochi abbia nel frattempo virato verso altre demarcazioni cognitive (digital wisdom, skillness e stupidity).  Del resto, postulare addirittura a livello istituzionale l’esistenza dei digital native è un prerequisito necessario per il terzo assunto, ovvero la necessità di un adeguamento professionale senza condizioni, in presenza di una totale (quanto, per fortuna, fantomatica) soluzione di continuità tra le generazioni e della conseguente inadeguatezza educativa e formativa di adulti che si scoprono migranti digitali (per di più tendenzialmente sempre sul barcone e privi di permesso di soggiorno).

Il quarto assunto è la cessione di sovranità professionale. L’istanza digitale dove per definizione si realizza questo passaggio è il registro elettronico. Non importa che spesso il modello di valutazione previsto dal fornitore (privato) del servizio preveda la media dei voti, criterio avversato da molta della docimologia democratica. Non importa che i dati di proprietà delle scuole pubbliche siano in possesso di ditte appunto private e che spesso non si sappia dove siano di preciso i “registri” degli anni diversi da quello in corso. Non importa che gli scrutini siano diventati succubi compilazioni, eterodirette da modulistiche la cui rigidità operativa del momento è direttamente proporzionale a quella procedurale, imposta dallo strumento elettronico all’intero processo di valutazione e annotazione della vita scolastica quotidiana. Non importa che gli studenti non abbiano accesso al registro di classe se non attraverso l’acquisizione di credenziali in capo a chi esercita su di loro i poteri inerenti la patria potestà. Il registro digitale è figlio della spending review, ma soprattutto, pargolo prediletto della modernità e metterlo in discussione sarebbe ingiustificabile conservatorismo.

Il quinto assunto è la rinuncia alla responsabilità e alla potestà collegiali. Le classi 2.0 sono nicchie che interessano solo il personale direttamente coinvolto. Gli animatori digitali sono il frutto di una designazione dall’alto, magari addolcita con blandizie o appesantita da velati ricatti. I progetti in campo “digitale” sono compito soltanto di coloro che li stendono, fatta salva qualche piccola guerra tra poveri quando siano in gioco porzioni di salario accessorio. Ma anche questa eventualità di conflitto è stata il più delle volte sapientemente sventata o smorzata dai dirigenti scolastici, attraverso rotazioni, compensazioni in altri settori e altre attribuzioni o contrattazioni ad personam, che hanno tracciato la strada per la supina accettazione della valutazione premiale da una parte e della conversione del proprio salario potenziale in bonus d’acquisto vincolato dall’altra, meglio se attraverso una delle grandi corporation internazionali protagoniste della diffusione dell’innovazione tecnologica.

(Marco Guastavigna, insegnante in pensione e formatore)