Digital Past: l’innovazione impossibile – di Marco Guastavigna, pubblicato su Insegnare 5/2011
La gran parte dei miei interventi su questa rivista si è occupata del “Futuro” della scuola, più raramente del “Presente” della didattica. La rubrica, infatti, è dedicata alle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione e viene quindi più o meno automaticamente associata all’idea di innovazione, processo per sua natura destinato ad essere assegnato alla prospettiva del “Dopo”. E questa interpretazione non ha in sé nulla di sbagliato, perché le tecnologie digitali sono certamente entrate nella scuola. Si va dalle lavagne interattive multimediali in qualche aula (una piccolissima minoranza del totale) alla necessità di fornirsi di credenziali istituzionali per fare domanda di mobilità mediante Internet o scaricare cedolini e moduli sul reddito (azioni che invece riguardano tutti i potenziali interessati). Volenti o nolenti, insomma, dobbiamo fare i conti con le TIC, che si sono connotate come strumenti nuovi e hanno indotto e richiesto modelli operativi e procedurali nuovi, i quali a loro volta presupporrebbero l’introduzione di punti di vista e atteggiamenti nuovi, cui dovrebbero essere conseguenti profili professionali nuovi.
Nel caso dell’organizzazione e dell’amministrazione della scuola, è più immediato, anche se non è semplice, individuare obiettivi comuni a tutto il sistema di istruzione e di conseguenza protocolli di azione efficaci; e di conseguenza capire quali aspetti innovativi possano essere davvero utili e diffusi. Per quanto riguarda la didattica, invece non è così: non ci sono certezze e poco si è consolidato. Uno sguardo critico al “Passato” - e in particolare ad alcune iniziative che lo hanno caratterizzato - può aiutarci a capire meglio e mettere maggiormente a fuoco le questioni.
In primo luogo ci vuole il coraggio di affermare che – per quanto concerne lo spazio formativo e i processi cognitivi che le TIC possono mettere in gioco nel campo dell’apprendimento – è ancora assolutamente assente e lontana un’idea di innovazione davvero convincente, articolata e condivisa. Le posizioni e opinioni più note e frequenti condividono infatti un concetto davvero desolante e superficiale, di rottura operativa ed epistemologica: il vecchio, il tradizionale, il cartaceo, sono tutti quanti da buttare in nome di una fiducia assolutistica e messianica nel “nuovo”, ovvero nel “digitale” in quanto tale. Molta parte dei sostenitori degli eBook è assiomatica: innanzitutto essi “non devono essere dei libri”. L’innovazione è quindi concepita e prospettata in base un principio di contrapposizione e al dogma dell’efficacia intrinseca delle strumentazioni digitali.
Questo modo di vedere le cose non nasce dal nulla e tanto meno dal caso. Ci sono invece responsabilità molto precise, in primo luogo l’improvvisazione istituzionale. Fin dalle prime mosse ministeriali con valenza nazionale (1995: Progetto Multilab; 140 scuole circa di tutti gli ordini e distribuite sull’intero territorio del nostro Paese) alla definizione di ipotesi di partenza ottimistiche sulla potenzialità delle tecnologie digitali di introdurre quasi per inerzia innovazione nella comunicazione, ma anche nella metodologia didattica, e quindi di favorire gli apprendimenti, non è mai corrisposta un’attività di vero monitoraggio e soprattutto di autentica verifica dei risultati. Pertanto, nessuno sa nulla a proposito né di eventuali vantaggi operativi e cognitivi acquisiti dagli studenti né tanto meno a proposito delle dinamiche professionali e culturali degli insegnanti a seguito di Multilab. Altro elemento deleterio per la definizione di quadri di riferimento chiari e a loro volta condivisi, è la costante e trasversale semplificazione – quando non banalizzazione – concettuale. Non mi riferisco soltanto al primato del lessico “tecnocentrico”, quello per cui sarebbe necessario sapere cos’è una “periferica di input” piuttosto che la capacità in bit di un gigabyte per essere considerato idoneo a partecipare al concorso per dirigente scolastico, come preteso dalla tanto recente quanto sciatta operazione sfociata nella prova preselettiva del 12 ottobre 2011, senza che nessuno avesse la capacità e la volontà di discuterne i presupposti organizzativi e culturali. Ben più fuorviante è stata l’opacità cognitiva globale, che fa sì che a tutt’oggi espressioni come “informatica”, “elettronica”, “multimedialità” sono per molti assolutamente equivalenti, perché rappresentano in modo confuso l’universo generico delle tecnologie. Questo humus concettuale è stato fertile terreno per l’affermazione nelle singole unità scolastiche, così come in molti uffici nazionali e periferici delle varie branche dell’amministrazione scolastica, di una generazione di pseudo-esperti. Era ed è ancora troppo spesso sufficiente essere abbastanza disinvolti nell’uso del personal computer (in genere fatto coincidere con la riduttiva capacità di utilizzare Windows ed i relativi software) e del gergo ad esso associato (quante persone ancora adesso si scambiano, convinte di essere nel giusto, frasi del tipo “Facciamo un bel powerpoint!”, confondendo un marchio commerciale con i suoi prodotti effettivi, ovvero le diapositive digitali per una presentazione commentata) per essere considerati idonei a svolgere qualsiasi compito riguardante dispositivi digitali, da impianto e manutenzione della rete della segreteria a formazione degli insegnanti sull’uso didattico della LIM. Sono per esempio molti i licei che assegnano in modo assolutamente spontaneo – e in assoluta buona fede –agli assistenti tecnici di laboratorio compiti di questo genere, considerati del tutto equivalenti. Il risultato di questa forma mentis è sotto gli occhi di tutti, a volerlo vedere: molte unità scolastiche dipendono ancora adesso, per quanto riguarda politiche e scelte in materia di tecnologie (partecipazione a iniziative, formazione, adesione a progetti, assegnazione di incarichi), dalla rappresentazione mentale veicolata e dalla narrazione messa in atto dagli “smanettoni” di turno. Anche il web, del resto, e Facebook in particolare, pullulano di esperti improvvisati (singoli e ultimamente anche aggregati in gruppi) che costruiscono ridondanti banche dati di segnalazioni e di recensioni di siti, in larghissima misura una replica dell’altra, riscuotendo plauso e gratitudine di ingenui colleghi, che – ad esempio in nome dell’immediata disponibilità di un elenco di siti per fare cartoni animati- rinunciano ad acquisire capacità di ricerca personali, autonome e critiche. Fatte salve situazioni particolari, tra le quali non possono essere considerate però le sedi del velleitarismo operativo di coloro che credono – sempre in piena buona fede – di poter essere autosufficienti nella produzione di libri di testo e materiali didattici, sono in sostanza del tutto assenti nella scuola italiana riflessione allargata e partecipazione collegiale, e di conseguenza competenze culturali diffuse e spendibili, sull’uso delle tecnologie nella didattica. A dare ulteriore impulso in questa deleteria direzione sono intervenuti due ulteriori fattori. Da una parte le TIC hanno portato al parossismo la tendenza alla delega: dagli operatori tecnologici della scuola media dell’inizio degli anni Novanta, all’assegnazione di funzioni strumentali specifiche, passando per la definizione di figure obiettivo per la formazione “informatica”, la produzione del sito della scuola e così via. Dall’altra parte, i fondi stanziati non sono stati mai sufficienti per finanziare in modo omogeneo ed esteso tutte le unità scolastiche, dal Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche (1997-2000) - che in alcuni casi si ridusse a correlare gli stanziamenti alle probabilità di sopravvivenza delle unità scolastiche al contemporaneo piano di ridimensionamento - alle attuali campagne per la diffusione delle LIM o delle cl@ssi 2.0, che riguardano percentuali infime del numero totale degli studenti e degli insegnanti. Le iniziative nazionali hanno poi altre profonde responsabilità culturali e organizzative. Mi riferisco, per esempio, al Piano di formazione delle competenze informatiche degli insegnanti e del personale ATA (Fortic I, a.s. 2003-2004), che fu ricco di contraddizioni e contribuì a confondere le idee in modo irreparabile. Erano previsti tre percorsi formativi. Il percorso A era finalizzato a “alfabetizzare” quanti più insegnanti possibile: il solo limite erano i fondi disponibili, ottenuti dalla vendita delle licenze UMTS (la telefonia cellulare di banda larga, con servizi multimediali e trasmissione veloce di dati). Il percorso B si rivolgeva a poche unità di personale docente, delegate scuola per scuola dai collegi a formarsi per attività di counseling didattico ai colleghi. Il percorso C era diviso in due livelli di diversa complessità (C1, destinato anche agli ATA e C2, riservato ai docenti) e aveva come tema impianto e manutenzione strutturale. L’Amministrazione centrale, nonostante vi fossero allora alcune voci critiche, si ostinò a organizzare il percorso A intorno alla “Patente Europea del Computer” (ECDL), il cui syllabus era destinato agli impiegati esecutivi, rendendo obbligatoria la frequenza dei relativi 7 moduli per tutti coloro che si erano iscritti, desiderosi magari di avere invece qualche indicazione didattica e metodologica in più e qualche conoscenza tecnica in meno. I materiali di studio e di esercitazione vennero abborracciati e reperiti all’ultimo momento, con il risultato di lasciare poche tracce davvero significative nelle professionalità coinvolte. I reduci del percorso B furono a dire la verità retribuiti nel primo anno di counseling, con una somma stanziata una tantum e quindi mai più replicata: il risultato furono la dispersione di energie e la proposta di un modello effimero, perché non più realizzabile se non attingendo al fondo di istituto, cosa che non avvenne in ogni scuola, perché non tutte giudicarono le TIC una vera priorità formativa. Il percorso C nelle due sue articolazioni ebbe invece subito chiara l’inanità di fondo dell’iniziativa, dal momento che non erano previsti né fondi specifici né forme di organizzazione del lavoro capaci di valorizzare le competenze acquisite. Seguì una seconda campagna di formazione (Fortic 2), molto meno significativa, dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo, perché alle scuole era richiesto di cofinanziare le iniziative di formazione. E infine si aprì la fase in cui ancora ci troviamo, caratterizzata dal marketing concettuale (dai learning object alla lavagna multimediale, passando per gli eBook, feticci ricorrenti di una didattica rinnovata) in cui vige la rigida equazione innovazione strumentale=innovazione metodologica, chiave di volta delle campagne istituzionali di diffusione del Pensiero Pedagogico Unico e del successo acritico di slogan come Digital Natives o Scuola 2.0 e delle credenze ad essi associate, nonché di demagogici portali vetrina, sul modello di Innovascuola.
Su Internet per approfondire
Multilab |
http://www.edscuola.it/archivio/norme/direttive/multilab.html |
Fortic |
http://www.edscuola.it/archivio/norme/circolari/cm282_97.html |
Fortic 2, l’esempio di Bologna |
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Scuola digitale |
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Innovascuola |