Priorità? - di Marco Guastavigna, pubblicato in insegnare 2/2009
L’allarme
La ventitreesima Frequently Asked Question a proposito della “riforma della scuola”, collocata sul sito del Miur, scovata e ripresa addirittura in prima pagina da Repubblica del 22 febbraio 2008, ha immediatamente scatenato violente polemiche, soprattutto dopo la dichiarazione ministeriale secondo cui la tecnologia e l’informatica non sarebbero un insegnamento prioritario nella primaria. Questo fino a quando è arrivata la solita, ambigua, smentita: “l’informatica è oggetto di insegnamenti trasversali”, “a scuola stanno per arrivare libri digitali e lavagne interattive multimediali in quantità” e così via, in un crescendo di specchietti tecnologici per allodole. Qual era stato il senso globale della precedente campagna di denuncia, di cui erano protagonisti vari commentatori sui media tradizionali e qualche appassionato blogger? Con la riduzione o addirittura l’abolizione del laboratorio di informatica nella primaria sarebbe andata perduta l'occasione di fornire agli scolari le conoscenze di base necessarie per la società dell'informazione. Non a caso veniva citato ancora una volta il documento adottato dalla Commissione UE il 25 maggio 2000 ("Una società dell´informazione per tutti"), secondo cui "ciascun cittadino [deve essere] in possesso delle competenze necessarie per vivere e lavorare nella nuova società dell´informazione" e "tutti i docenti entro la fine del 2002 [avrebbero dovuto[1] possedere] le competenze necessarie per l´utilizzo di internet e delle risorse multimediali". Il ragionamento sembrerebbe non fare una grinza e giustificare quindi le posizioni assunte da molti colleghi, che vedevano minare contemporaneamente le proprie professionalità e le opportunità educative da offrire agli scolari.
La contraddizione
Confesso invece di non essere affatto convinto della correttezza del ragionamento a favore dell’informatica a scuola. Come si può conciliare il timore di non poter fornire ai giovani capacità di base essenziali con la diffusissima metafora dei "digital natives", che sostiene che i giovani avrebbero una ben maggiore predisposizione dei giovani all'uso delle tecnologie della digitali società dell'informazione rispetto agli adulti? Da una parte gli insegnanti - e gli adulti in genere - dovrebbero insegnare ai giovani ad usare in modo corretto e proficuo le tecnologie digitali dell'informazione e della comunicazione. Dall’altra i giovani sarebbero molto più abili ed “adatti” degli adulti – e quindi degli insegnanti - ad usare in modo spontaneo, creativo e produttivo le tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Una delle ragioni per cui la scuola andrebbe “remediata” risiederebbe, anzi, proprio in questo dato di fatto operativo e cognitivo. Mi pare evidente che tra le due istanze culturali vi sia una profonda contraddizione: o sono vere un presupposto e una prospettiva di approccio al problema o sono veri quelli opposti. Le ragioni della coesistenza pacifica tra le due impostazioni, che spesso vengono addirittura associate l’una all’altra nella medesima argomentazione senza cogliere l’incoerenza, risalgono per altro a una confusione che viene da lontano.
Le ragioni della confusione
A spiegare la mancanza di una concezione culturale e pedagogica chiara e davvero condivisa, intorno a cui organizzare seriamente e virtuosamente tecnologie dell’informazione e della comunicazione e percorsi formativi, concorrono diversi fattori e varie responsabilità che si dispiegano negli anni e nelle istituzioni. In primo luogo il dibattito è caratterizzato fin dagli albori da imprecisione lessicale e da sciatteria concettuale: si va dall'uso improprio del termine “informatica”, senza alcuna attenzione al suo specifico statuto disciplinare, alla sua confusione nell'immaginario collettivo con "multimedialità" o, ancor più banalmente, con l’uso del computer (a sua volta ridotto all’utilizzo di Windows), fino all’ impiego altrettanto vago e disinvolto di espressioni ricche di forza evocativa, ma vuote di contenuti culturali; adesso, per esempio, è di gran moda il “pensiero digitale". Strettamente connesso a quanto ho appena esposto è il susseguirsi di scenari visionari i cui presenti effetti non sono comprovati da alcuna indagine scientifica: gli echi delle fantasmagoriche teorizzazioni sulla rottura epistemologica e cognitiva comportata dalle tecnologie ipertestuali e reticolari non sono ancora del tutto scemati e già siamo immersi nei paesaggi fantastici del Web 2.0, se non negli annunci del Web 3.0. Soprattutto, stiamo tuttora subendo le conseguenze di una politica scolastica e di un’impostazione della formazione degli insegnanti i cui attori hanno navigato “a vista”. Cominciamo con il Progetto Multilab: siamo nel 1995 e la direttiva Lombardi affida a 141 unità scolastiche il compito di verificare fattibilità ed efficacia di attività didattiche con le tecnologie digitali. Non si parla ancora di “banda larga” e Internet è quindi una risorsa tra le altre: si ragiona sull’utilità della posta elettronica e si realizzano ipertesti – anche perché le scuole sono influenzate da corsi di formazione nei fatti egemonizzati, in assenza di proposte più convincenti, da una spregiudicata casa editrice romana e soprattutto da un suo ambiente per lo sviluppo di questo tipo di prodotti. Siamo tuttora in attesa dei risultati scientifici di questa sperimentazione, ma nel 1997 Berlinguer avvia il Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche, destinato a concludersi nel 2000, che prevede investimenti progressivi in tutte le scuole e si articola in “Progetti A” e “Progetti B”. I primi devono alfabetizzare i docenti, e contemplano quindi formazione e un computer da collocare in biblioteca o in sala insegnanti. I secondi devono impiegare le tecnologie nella didattica e vanno realizzati in scuole dotate di personale già “esperto”. Siamo nel periodo del ridimensionamento delle unità scolastiche e agli inizi dell’autonomia didattica, organizzativa e di ricerca e sperimentazione delle scuole, che devono gestire il passaggio dalla certezza di finanziamenti standard alla necessità di progettare, in concorrenza le une con le altre, per avere fondi per didattica e prestazioni professionali aggiuntive. I risultati di questo insieme di fattori sono imbarazzanti. Per decidere come assegnare i fondi vengono spesso costituite task forces provinciali, a cui partecipano rappresentanti dell’amministrazione scolastica, degli enti strumentali dell’istruzione e qua e là anche le associazioni professionali degli insegnanti: siamo agli esordi di quel circolo vizioso di reciproche validazioni tra soggetti istituzionali e privati, intenti a celare in questo modo la propria inadeguatezza strategica di fronte ai compiti assunti, che caratterizzerà tutta la successiva vicenda. Avverrà così che in vari casi siano il numero di allievi e di insegnanti e le potenzialità di sopravvivenza dell’unità scolastica a decidere dell’assegnazione dei fondi, a prescindere dal merito dei progetti. Avverrà così che molte scuole si chiuderanno su se stesse: comincia a diffondersi quello sperimentalismo fine a se stesso, caratterizzato dall’innovazione per l’innovazione, senza alcuna attenzione agli effettivi risultati di apprendimento, basato sugli aspetti immediatamente empirici, che è ancora in pieno rigoglio ai giorni nostri. È il periodo di maggior gloria per gli smanettoni, insegnanti che - per interesse personale prima e con qualche vantaggio economico poi – trafficano nei modi più diversi con le tecnologie “informatiche”, troppo spesso designati come esperti del rinnovamento tecnico e didattico, senza alcuna seria verifica collegiale sull’efficacia dei loro interventi. Tra il 2002 e il 2004 è attuata una vastissima campagna sulle “competenze informatiche e tecnologiche degli insegnanti”, sull’onda delle “tre I”, ma fondata su una mentalità da tempo diffusa in sede ministeriale, che riduce le direttive europee sulla cittadinanza digitale a generica familiarità con Internet e PC. L’ispettore Fierli, che il 6 ottobre 2000 all’inaugurazione dell’Osservatorio Tecnologico del MPI ha fermamente dichiarato di non credere all’ipotesi del “computer invisibile”, promuove formazione a distanza basata su Internet e suddivisa in tre tipologie. Ci sono il percorso A, ancora di familiarizzazione; il percorso B, che mira a introdurre in ogni unità scolastica consulenti sull’uso didattico delle tecnologie; il percorso C, relativo a gestione e manutenzione di infrastrutture e destinato nella versione più semplice (la C1) anche al personale ATA, mentre la versione C2 è riservata agli insegnanti. La mancanza di un autentico progetto culturale e l’improvvisazione organizzativa portano di nuovo a risultati grotteschi. Al percorso A vengono appioppati il riferimento all’ECDL, “patente” destinata al personale esecutivo d’ufficio, e esercitazioni mutuate da iniziative per gli impiegati comunali, senza alcuna considerazione delle specificità professionali degli insegnanti. Per i percorsi B, C1 e C2 vengono con fatica definiti profili accettabili, salvo scoprire in corso d’opera la mancanza dei presupposti finanziari e contrattuali per la creazione di figure di sistema nelle scuole. Tutti e tre i percorsi fanno i conti con materiali di formazione raccolti e messi in linea senza un vero coordinamento editoriale e senza un preciso progetto alle spalle. Moratti applica lo spoil system e a Fierli succede un altro ingegnere, Musumeci, molto attento, come il predecessore, a mettere in evidenza la quantità di personale interessato dalle iniziative e a glissare in merito a ogni verifica di efficacia. Un po’ dappertutto Università e Politecnici sfruttano la propria rendita di posizione rastrellando fondi per la formazione e l’ospitalità: la loro presenza è infatti un modo per verniciare di qualità un profondo vuoto culturale e organizzativo. L’iniziativa non verrà più replicata, ma verrà sostituita da numerose altre attività di formazione e di sperimentazione, nazionali, interregionali e locali, alcune delle quali sono ancora in corso, caratterizzate da ampie enunciazioni di intenzioni e scarse o nulle verifiche di efficacia, secondo un costume entrato in uso.
Su Internet per approfondire
La FAQ dello scandalo |
http://www.pubblica.istruzione.it/comecambialascuola/faq.shtml#primaria23 |
“Re-mediare” la scuola |
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Monitoraggio del progetto Multilab |
http://archivio.invalsi.it/ricerche-nazionali/multilab/base-multilab.htm |
P.S.T.D 1997-2000 – Archivio FNADA |
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Innovascuola |
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Apprendere in rete |
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PON – Ricerca scientifica e tecnologica |