Non è tecnologia, ma una questione mia (1) - di Marco Guastavigna, pubblicato su Insegnare 4/2007
Tra coloro che mi leggono abitualmente sarà probabilmente a conoscenza dell’estensione dell’obbligo di istruzione a 16 anni e avrà letto la relativa documentazione. Voglio essere ulteriormente ottimista e pensare che avrà anche notato che sia tra le competenze-chiave per la cittadinanza sia tra quelle relative agli assi disciplinari sono citate anche questioni di tipo “digitale”: si va dalla necessità di comunicare “utilizzando diversi supporti (cartacei, informatici, multimediali)” alla competenza d’uso e produzione di “testi multimediali”, passando per “le potenzialità offerte da applicazioni specifiche di tipo informatico” all’asse matematico.
La superficialità e la genericità di queste espressioni potrebbero avvilire in modo definitivo chi da anni si occupa di queste problematiche, se non avessero un aspetto positivo: aver salvato la scuola (superiore) italiana dall’idea dell’esistenza di una “competenza digitale” specifica, e della conseguente necessità di promuoverne l’acquisizione da parte degli studenti.
Ho appena fatto – mi rendo conto – un’affermazione forte, assai divergente rispetto al senso comune e anche a molte pratiche formative. L’articolo (articolato per ragioni di spazio in due puntate) la argomenterà con affermazioni positive, anche se comincio il ragionamento a supporto con una sorta di dimostrazione per assurdo. Se, infatti, l’idea di una competenza digitale avesse una qualche autentica consistenza logica, cognitiva e didattica, saremmo di fronte ad una situazione di sofferenza socioculturale davvero paradossale, dal momento che le pratiche d’uso delle tecnologie di comunicazione sono davvero poco diffuse presso la generazione che in questo momento si assume compiti formativi nei confronti dei giovani! Ancora l’altro giorno nella mia scuola, in occasione di una discussione nell’ambito del dipartimento di lettere, è stata accolta pacificamente la snobistica confessione di una collega “Io non amo il computer”, che nei fatti significa: “Io mi autoescludo dall’impiego della principale tecnologia dell’elaborazione intellettuale[1]”. Se nella fattispecie la spiegazione può risiedere nelle scarse occasioni di frequentare attività intellettuale che l’attuale situazione della scuola offre agli insegnanti, il problema del “rapporto con il computer” va affrontato in termini più generali.
Perché è sbagliato porre la questioni in termini tecnici e quindi pensare ad una competenza a se stante? La ragione fondamentale è questa: gli strumenti digitali (dal computer a Internet a tutti gli accessori ad essi collegati – molti dei quali esplicitamente ed evidentemente finalizzati all’intrattenimento) si configurano sempre di più come tecnologie destinate ad un uso (e ad un consumo!) di massa.
Le aziende che progettano, producono e vendono questi oggetti li concepiscono sempre più come destinati ad un agire tecnologico di massa, del tutto indipendente (nel senso di non-dipendente) dal contesto tecnico professionale in cui il funzionamento di tali oggetti trova fondamento. Ai clienti interessano infatti le funzioni (scrivere, disegnare, far di conto, ma anche e sempre di più reperire informazioni, interagire con altri, giocare, ascoltare e riprodurre musica, vedere filmati, ritoccare e stampare le fotografie realizzate con una macchina fotografica a sua volta digitale[2], comperare oggetti, prenotare viaggi e spettacoli, fare teppismo mediale) per la comprensione delle quali sono palesemente inutili specifiche conoscenze informatiche, meccaniche, ottiche, elettriche, elettroniche e così via.
Detto questo, non possiamo negare che un approccio non soltanto consumistico ad un computer è un’esperienza complessa. Rispetto ad altri strumenti che ci circondano (tra cui possiamo comprendere anche i sempre più numerosi gadget elettronici di cui ci circondiamo - dalle sveglie controllate via radio ai navigatori stradali) il computer ha infatti una caratteristica del tutto peculiare, il suo configurarsi come tecnologia a finalizzazione aspecifica, il suo richiedere quindi una rappresentazione logica diversa da quella delle altre. A determinare il senso del suo uso, infatti, non è la sua struttura generale, ma il modulo logico-operativo (il software) che di volta in volta viene avviato. All’utente viene quindi richiesto di scegliere di volta in volta a quale scopo utilizzare il computer. Questo è il passaggio cruciale. Saper usare un computer significa in primo luogo averne compreso la polifunzionalità e quindi in secondo luogo saper decidere se e in quali attività utilizzare i programmi di cui esso è corredato o via via corredabile. Siamo insomma di fronte ad una “macchina” particolare, fortemente pervasiva perché utilizzabile praticamente dovunque siano necessari processi di elaborazione, produzione, controllo, e per questa stessa ragione non più ascrivibile, come quelle che l’hanno preceduta, ad un ambito specifico. A valorizzare le potenzialità di un software per la scrittura saranno coloro che scrivono, non gli informatici, così come a decidere come integrare quelle delle fotocamere digitali e dei programmi di manipolazione delle immagini nelle loro attività saranno i fotografi. E così via.
Una prima, basilare, conclusione: se, nella prospettiva dell’uso intelligente e consapevole, non ha senso concepire una competenza specifica, va abbandonata anche l’idea di affidare la formazione a specialisti (autoproclamatisi) onniscienti: costoro sarebbero solo in grado di proporre un uso del computer generico, autoreferente e su base addestrativa. A far capire agli studenti quali sono i vantaggi operativi e cognitivi della scrittura su supporto flessibile devono (e possono) essere gli insegnanti di lingua, ovviamente dopo averli apprezzati in prima persona nella propria elaborazione di testi.
Se il ragionamento si arrestasse qui sarebbe però incompleto.
Tutti percepiamo infatti con chiarezza che, se abbiamo confidenza con un certo numero di programmi, troviamo più facile cimentarci con altri, nuovi, ambienti di lavoro, ossia che il “computer” ha una qualche impostazione globale.
È evidente, per esempio, che ogni modulo operativo specificamente finalizzato ad un’attività riconoscibile (ogni software) si basa su elementi ed aspetti di valenza generale, come finestre, icone, pulsanti, su cui agiamo con il prolungamento della nostra mano dito e della nostra vista rappresentato dal mouse.
Quando parliamo di finestre, icone, pulsanti e così via stiamo in realtà usando un principio ergonomico fondamentale, ovvero il concetto di interfaccia, che definisce le modalità comunicative che un oggetto o un ambiente utilizzano per darci informazioni sulle loro funzioni (a cosa servono, cosa fanno) e sul loro funzionamento (come fare per attivare e combinare le diverse funzioni). Bene, l’interfaccia di una macchina polifunzionale, a destinazione aspecifica e funzionalmente incrementabile – come abbiamo appena definito il computer da un punto di vista cognitivo- è per forza di cose molto particolare, perché deve conciliare la grande quantità di funzioni attivabili con il bisogno dell’utente di economizzare sugli apprendimenti necessari per comprendere il funzionamento.
La soluzione è sotto gli occhi di tutti, a saperla e volerla vedere: l’interfaccia del computer propone inviti operativi (così l’ergonomia chiama le informazioni su funzioni e funzionamenti a cui abbiamo fatto appena riferimento) caratterizzati allo stesso tempo da
- specificità, sul versante delle funzioni;
- trasversalità, sul versante del funzionamento.
Già l’architettura di finestre, icone e pulsanti – comune a tutti i sistemi operativi più diffusi[3] - la testimonia in modo molto evidente, ma possiamo approfondire ulteriormente questa logica inclusiva, che non richiede alcuna conoscenza specialistica, sia pure per ragioni soprattutto commerciali.
Allargare uso e consumo dei propri prodotti è ovviamente nell’interesse dei produttori ed è per questa ragione che sono stati fatti approfonditi studi per fondare l’interfaccia dei computer su quattro assi ergonomici standard:
- analogia: le icone sono simboli, in grado di richiamare all’utente significati e operazioni noti o attesi, confidando nella sua capacità intepretativa ordinaria;
- intuibilità: l’utente agisce attribuendo senso a ciò che ha di fronte, senza dover memorizzare comandi;
- usabilità: gli inviti operativi e le informazioni sono distribuiti nel modo più equilibrato, semplice ed evidente possibile;
- convergenza: nel passaggio da un ambiente ad un altro l’utente ritrova e via via riconosce sempre meglio una logica comune.
Arriviamo quindi ad una seconda conclusione. Non solo non è richiesta alcuna conoscenza specialistica, ma il rapporto con l’interfaccia può sfruttare competenze di tipo generale, che è del tutto lecito presupporre nell’utente medio.
La formazione in questo settore va quindi completamente ripensata, in modo da valorizzare questa vocazione fortemente cognitiva della relazione tra uomini e macchine digitali (adulti o giovani che siano) e rendere completamente consapevoli e intenzionali sia gli approcci iniziali (“alfabetizzazione”) sia le riflessioni successive (crescente autonomia nell’uso del computer).
[1] Cfr. M. Guastavigna, “Per l’autonomia internettuale”, Dossier di Insegnare sulle “Competenze culturali per la cittadinanza”.
[2] Di cui più o meno tutti apprezziamo il fatto che non sono necessarie pellicole o la possibilità di cancellare le immagini che non ci piacciono senza sprecare altro che tempo e così via, senza manifestare la minima preoccupazione di capire come questo sia possibile.
[3] Windows, Linux, MacOSX