Il digital divide tra le generazioni – di Marco Guastavigna

(pubblicato in “Insegnare, 1-2007)

 

Costretti dalla vicenda del “video-choc” si è finalmente discusso, a scuola, sui media e nella società, del rapporto tra rete, tecnologie digitali ed educazione dei giovani rinunciando all’entusiasmo acritico che accompagna spesso le occasioni in cui si affrontano questi temi, dai dibattiti, ai convegni, agli articoli sulle riviste. In qualche caso, anzi, la critica è stata radicale, quasi esasperata, distruttiva. Condivido le tesi del Garante della privacy: è necessario ed urgente che anche la pubblicazione di informazioni su Internet e le conseguenti interazioni comunicative siano soggette a regole, in grado di garantire la riservatezza, il reciproco rispetto e, soprattutto, i diritti fondamentali dei singoli cittadini e della collettività. Propongo però anche ulteriori riflessioni. La realtà scolastica ha infatti in qualche modo scontato una convinzione che resta molto diffusa e che l’avvenimento in sé ha probabilmente rafforzato: i giovani hanno una capacità di governo e di impiego delle tecnologie digitali così spontaneo ed immediato che alle generazioni precedenti (ed agli educatori in particolare) non resta che adeguarsi con grande fatica ai modelli di comportamento (e di consumo) prevalenti o rinchiudersi su se stesse, rinunciando ad entrare in un “mondo incomprensibile, troppo veloce”, rimpiangendo la situazione “tecno-comunicativa” precedente ed aspettando una soluzione esterna rispetto alla comunità educante. Pur nel suo piccolo, questa rubrica testimonia ormai da qualche anno che è possibile invece accostarsi alle continue (e per certi aspetti davvero frastornanti) novità delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione avendo come obiettivo non solo l’indicazione delle loro potenzialità astratte, ma anche l’analisi di quali ne siano l’utilizzabilità e la sostenibilità effettive nel contesto formativo. In questa chiave, per esempio, ci siamo occupati del modo in cui sono andati differenziandosi e ridefinendosi i motori di ricerca: essi erano inizialmente “generalisti”, destinati a sostenere qualsiasi tipo di ricerca, indipendentemente dal campo di conoscenza e dal materiale (testo, immagini, contenuti multimediali) desiderato, e sono andati via via specializzandosi. Lo stesso Google video è, ad esempio, una branca di Google, che ha affiancato alla funzione di ricerca la collocazione sui suoi spazi (in gergo “server”)  da parte di chi sia interessato di filmati amatoriali, semiprofessionali o professionali da condividere con gli altri utenti. La collocazione è possibile solo se si possiede un account (ovvero se ci si è iscritti fornendo dati identificativi, in particolare sottoscrivendo la posta elettronica di Google, Gmail) ed è subordinata alla garanzia che i contenuti non siano osceni e che sia rispettato il diritto d’autore. Mentre scrivo queste sono le sole clausole da sottoscrivere e palesemente non viene effettuato alcun controllo che quanto dichiarato sia vero: saranno semmai altri utenti a segnalare la mancata corrispondenza del materiale ai criteri previsti. In modo simile a Google.video funziona del resto anche Youtube. I due servizi sono esemplificativi di un modo di concepire le risorse di Internet che la diffusione dei collegamenti ad abbonamento fisso ed a banda larga ha valorizzato, tanto che si è coniato un nome per definirlo, Web 2.0[1]. Almeno potenzialmente, infatti, la rete consente ormai a chiunque di produrre contenuti utilizzabili da tutti gli altri, mentre in precedenza il rapporto era sbilanciato: pochissimi autori e moltissimi fruitori. Sono un esempio di questo modo di vedere le cose anche i blog e in parte anche le chat, che evidenziano pure che la partecipazione attiva è possibile anche senza il possesso di abilità tecniche specifiche. Questa visione, per lo meno tutte le volte che si traduce nella deterministica individuazione di una potenzialità educativa assoluta, è davvero ingenua. Gli strumenti in effetti ci sono, fanno quel che dicono di voler fare e sono facili da usare, ma questo non garantisce affatto contenuti significativi, rispettosi delle differenze e dei criteri di uguaglianza, culturalmente utili e così via. La validità di quanto condiviso dipende dal clima socio-culturale in cui si trovano ad operare coloro che li producono e dal loro sistema di valori. Una soluzione al problema, certamente parziale, ma con valenza educativa, è quindi far entrare “positivamente” gli strumenti nella pratica didattica, in modo da depotenziarne gli aspetti di trasgressione e di eccezionalità. Perché non suggerire agli studenti di utilizzare i cellulari forniti di fotocamere digitali con una sufficiente definizione per fotografare schemi prodotti sulla lavagna? Perché non incentivare i ragazzi a scambiarsi via infrarossi o bluetooth le “memorie” didattiche così accumulate, in particolare quando qualcuno sia assente? Tra un po’ arriveranno in classe gli smartphone, che associano alle funzioni del telefono – che possono anche essere disattivate mantenendo attive le altre - quelle di un palmare. Prepariamoci a suggerire un uso intelligente, formativo, delle agende e dei software per gli appunti e per la scrittura presenti su questi dispositivi! Insomma, anziché prendere le distanze dobbiamo sforzarci di essere propositivi. Simili ai depositi di video sono del resto quelli di immagini (come Flicr) o di diapositive elettroniche (per esempio Slideshare), dove chi colloca i suoi materiali è invitato a precisarne condizioni di visione e di uso, dal tradizionale copyright alle Creative commons licenses[2]. In tutti i casi abbiamo ancora una carta da giocare, la nostra capacità di dotare le esperienze d’uso a scuola di strumenti digitali -compresa un’eventuale produzione e condivisione via Internet di filmati- di senso e di significato formativo autentici. In questo modo riusciremo a contrapporre mentalità, riferimenti socioculturali e sistemi di valori diversi da quelli attualmente prevalenti. Personalmente, infatti, non ho smesso di confidare nell’intelligenza e nella sensibilità dei giovani e continuo a pensare che sia possibile indurre in loro processi di emulazione positiva: se attualmente una ricerca con parola-chiave “scuola” su Google.video recupera soprattutto filmati il cui contenuto disegna un quadro avvilente, in cui le “risse” vere o simulate e gli scherzi sciocchi e l’evidente imbarazzo dei colleghi ripresi sembrano riempire un vuoto emozionale davvero disumanizzante, non escludo che tra un po’, a partire proprio dall’attrazione esercitata dai primi lavori ai quali sia riconoscibile un valore culturale, sarà possibile anche veder accumulare materiali diversi, testimoni di un diverso rapporto tra adulti, giovani e tecnologie.

Proprio a cercare una soluzione alla difficile e a volte poco produttiva relazione tra adulti e tecnologie è dedicato il progetto Eldy. Si tratta di un software attualmente in “beta”[3] e rilasciato solo per Windows, ma destinato ad avere versioni stabili anche per MacOSX e per Linux ed esplicitamente rivolto ai soggetti “over 55”, ovvero ad una fascia d’età a rischio di esclusione dagli aspetti comunicativi e “digitali” della cittadinanza. Il programma si propone di facilitare sia le operazioni sia la costruzione di senso e può essere installato su ogni PC. Una volta avviato, offre un’interfaccia semplificata che raccoglie in modo uniforme le attività ritenute più necessarie: una casella di posta elettronica, uno spazio per “chattare” in modo monitorato, una “passeggiata” guidata su Internet, un ambiente di videoscrittura, un altro per l’accesso alle fotografie digitali e infine le previsioni del tempo. Tutto ciò è chiamato metaforicamente “piazza” e costituisce il centro dell’ambiente, a cui si torna da ciascuno dei suoi segmenti. Scaricare ed esplorare il programma può essere molto utile, non solo per apprezzare la validità dei criteri di semplificazione (bassa densità di informazioni e di stimoli, contrasto di colori netto, dimensioni ampie assegnate ai simboli ed ai caratteri), ma anche perché lo strumento può risultare utile sia per coinvolgere i colleghi meno desiderosi di cimentarsi con la complessità delle interfacce ordinarie sia per intervenire presso alcune persone iscritte, per esempio, ai corsi dei Centri di formazione permanente. Cito qui di seguito i due tra i principi-base del progetto Eldy:

-“Le idee informatiche e artistiche dei programmatori e di tutti i collaboratori partecipanti al progetto hanno come punto di partenza i bisogni e le richieste degli utilizzatori finali, che devono essere ascoltati a fondo durante lo sviluppo, sia per quanto riguarda il design di hardware e software che per i contenuti e i servizi da formulare e veicolare. La community dedicata include sia tecnici e sviluppatori che potenziali destinatari del prodotto finale”;

- “per il nostro scopo, la bellezza è niente senza usabilità. Ci impegniamo quindi a disegnare un bel prodotto in cui l’estetica non prevalga sulla funzionalità”.

 

 Un esempio di uso di Youtube (non presente nell'edizione a stampa dell'articolo)

 

 

 

 

Su Internet per approfondire

 

Google video, condivisione di filmati

http://video.google.it/

YouTube, condivisione di filmati

http://www.youtube.com/

Flicr, condivisione di fotografie

http://www.flickr.com/

Slideshare, condivisione di diapositive digitali

http://slideshare.net/

Eldy, documentazione e download

http://www.eldy.org/

 



[1] Nel nome vi è una sorta di gioco di parole. Così come i programmi sono contrassegnati nel loro sviluppo da un numero, che indica il progresso delle versioni, così il Web 2.0 costituirebbe un’evoluzione del Web 1.0 (che però non ha mai avuto questa etichetta).

[2] Ci siamo occupati di questo argomento in M. Guastavigna, “Licenze digitali”, Insegnare 7-8, 2005

[3] L’espressione indica che il programma non è ancora stabile e viene rilasciato perché venga testato dagli utenti, che sono invitati a segnalarne eventuali malfunzionamenti ed difficoltà operative.